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martedì 23 settembre 2008

psiche e anima

di Vittorino Andreoli

I concetti di psiche e di anima non hanno sempre una loro distinzione netta, specie se si sta alle loro radici etimologiche. Entrambi i termini infatti convergono verso degli stessi significati: anima da anemos vuol dire soffio, vento; e psiche significa esattamente respirare e soffiare. In origine dunque i due termini erano usati per indicare la parte immateriale dell’uomo, espressa in maniera chiara dalla concezione aristotelica per cui al corpo si univa l’anima. Qualche chiarezza in più la si ebbe con la patristica, seppure nel corso della storia i due significati si sarebbero ancora intersecati, e ciò anche nella seconda metà dell’Ottocento, quando le scienze psicologiche hanno trovato grande sviluppo e diffusione.

Il termine psiche usato sia in psicologia (studio della psiche) sia in psichiatria (cura della psiche) non chiarisce bene che si tratta di qualcosa di diverso dall’anima. E lo si può desumere anche dal linguaggio corrente, quando si parla di cura dell’anima o di medico dell’anima a indicare appunto lo psichiatra. La sovrapposizione è ancora evidente allorché ci si riferisce alle funzioni dell’anima e alle facoltà della psiche per cui si sente popolarmente dire: «Ti amo con tutta l’anima», quando si sa che gli affetti sono anzitutto funzioni psichiche, fra l’altro elaborate in specifiche aree cerebrali e dunque dentro la materia del cervello. Del resto si usa dire: «Ti amo con tutto il cuore», quando volendo attestarci in un organo sarebbe più corretto affermare: ti amo con tutto il cervello, dove ha sede appunto la funzione dell’affetto e del piacere, ma in quel "cuore" residua l’antica concezione che poneva la vita nel cuore proprio per il suo movimento, come motore del sangue a cui da sempre è legata la vita.

Non si tratta di banali osservazioni, possibili per tanti altri termini e riconducibili all’uso della lingua e ai suoi cambiamenti che si legano a esperienze storiche, e a condizioni del tutto empiriche. Nei limiti posti da un articolo di giornale vorrei qui offrire il mio parere, che è quello di uno studioso che esercita la professione dello psichiatra, ma che è rispettoso di quel mondo che riguarda l’anima nella sua accezione religiosa, quale entità che, ispirata da Dio creatore, entra nell’uomo per distaccarsi da esso con la morte, e che dunque ha una propria autonomia, per essere materia non corporea e trascendente, con un destino cioè che supera i confini della vicenda terrena. Per quel che mi riguarda, partirei dagli studi sul cervello e dalle neuroscienze che hanno caratterizzato la ricerca sul comportamento e sulla facoltà mentali all’inizio del secondo dopoguerra. Il cervello è risultato composto di due grandi processi: uno fissato fin dalla nascita e guidato in maniera completa dai geni; un secondo processo invece plastico, che si struttura in funzione delle esperienze, e dunque non è determinato in quanto viene organizzandosi proprio con lo scorrere della vita.

È la componente che potremmo definire acquisita: nel senso che non sfugge al gene, o almeno non completamente, giacché occorre che proprio il gene la permetta, e le dia disposizioni, che tuttavia diventano reali solo se accadono certi eventi.

L’esempio più semplice lo troviamo nella memoria: leggere questo articolo su Avvenire non è obbligatorio per nessuno, ma se uno decide di leggerlo o casualmente gli capita di leggerlo potrebbe essere colpito da qualche affermazione e potrebbe anche ricordarla, raccontandola anzi a un amico, e se proprio lo ha interessato ripensarla tra due anni e magari utilizzarla per proprie elaborazioni o per associarla ad altre osservazioni. Ebbene quel dato memorizzato sia nel caso di memoria a breve termine che a lungo, è stato possibile perché in certe aree (frontali e parietotemporali) si sono attivate strutture di tipo particolare che mai si sarebbero attivate se l’articolo non fosse stato letto. La memoria del dato è esattamente quella struttura del cervello di nuova formazione. Dunque, gli studi sull’organo cervello ammettono che la facoltà del ricordare abbia un substrato materiale e che quel segno materiale (circuito neuronale o modificazione di membrane neuronali) sia di fatto la memoria. La stessa cosa si potrebbe descrivere in termini biologici e molecolari, oppure in termini psicologici.

Dal che si può desumere che le funzioni del pensiero hanno una loro materialità nel cervello e che la dimensione psichica (che appartiene alla psicologia e alla psichiatria) poggia su meccanismi biologici che hanno un loro substrato materiale. Ovvio che la psiche sia legata al cervello, e se il cervello non funziona, perché entra in coma oppure viene traumatizzato, anche le sue funzioni ne risentono. È evidente che non può essere questa l’anima, perché essa non solo non trascende la materia ma addirittura esce dalla materia. Potremmo dire la psiche è ancora creta, qualcosa che si lega a quella sostanza organizzata geneticamente in un certo modo e passibile di plasticità, per cui si arricchisce anche con le esperienze.

E infatti possiamo dire, anche se può sembrare a prima vista paradossale, che dopo aver letto questo o un altro articolo che abbia stimolato un interesse e un processo di ritenzione mnemonica, il cervello del lettore non è più lo stesso: è qualitativamente diverso.

Lo psicologo e lo psichiatra dunque si occupano di cervello, anche se in modi differenti ad esempio dal biologo, in quanto loro si fermano alle manifestazioni e quindi a una descrizione dei processi cerebrali come appaiono fenomenologicamente. Se lo psicologo descrive cosa vede, il biologo invece studia cosa avviene dentro l’organo cerebrale. I due linguaggi per la verità sono ancora lontani perché il biologo sa molto poco di tutta la complessità dell’organo mentre lo psicologo lo può descrivere nei dettagli e in modo totale. Freud nel 1939 (nel «Sommario di psicoanalisi») diceva: «Verrà un giorno in cui forse i processi mentali potranno essere descritti proprio in maniera biologica».

E allora, potremmo aggiungere noi, non ci staranno più due linguaggi, biologico e psichico, ma si sarà trovata la stele di Rosetta e quindi si potrà parlare un’unica lingua. Comunque si vedrà nel futuro, quel che intanto sappiamo è che quanto è riferibile al cervello, e allo psicologico come espressione di quell’assetto cerebrale complesso, non è al tempo stesso riferibile all’anima di cui parlano le teologie. La quale anima si pone oltre la materia del cervello, e oltre il campo di osservazione tecnico-scientifica degli scienziati.

Da non teologo io vorrei segnalare due caratteristiche dell’anima: la sua immaterialità, quale essenza che arriva all’uomo, e che non ci è dato di rilevare con gli strumenti dell’osservazione empirica. Per il cristiano l’anima è addirittura il principio dell’identità personale, che sopravviverà anche dopo la morte, quando abbandonato il corpo e il cervello, lascerà anche tutte le facoltà cerebrali. Una identità che se dapprima si lega al corpo, resisterà anche oltre il corpo, permettendo all’uomo di vivere in eterno, cioè oltre le forme del tempo e dello spazio qui conosciute. Un’affermazione, questa, che non è soppesabile sotto un profilo scientifico e sperimentale: d’altra parte sarebbe assurdo e pretenzioso volere ridurre tutto a esperimento, o affermare che non potendo l’anima avere una sua dimensione misurabile allora essa è pari al nulla, ossia ad un’idea balzana che nasce dal cervello di qualcuno, anzi da un suo malfunzionamento.

Seconda caratteristica dell’anima quale la teologica ce la presenta è la sua eternità, poiché è una scintilla di Dio, che da Dio ci viene e a Dio ritorna, Lui che è l’Essere incorruttibile ed eterno. Proprio per queste qualità non può essere l’anima dipendente dal cervello, quasi ne fosse una sua parte o una sua derivazione materiale, giacché come abbiamo detto il cervello può funzionare oppure no, e funzionando lo fa in maniera diversa a seconda della dotazione dell’organo cerebrale.

Ed ecco la grande differenziazione: l’uomo può conoscere attraverso il calcolo e le dimostrazioni scientifiche, ma può farlo anche attraverso una fede che poggia sulla rivelazione divina. E il cristiano sa di avere una psiche, espressione del cervello, ma anche un’anima, che è diversa dal meccanismo psichico, e che è slegata anche dalla materialità dell’organo cerebrale e dal suo funzionamento, perfetto o meno. E dico slegata nel senso che non vedo un legame di causa-effetto, ma una condizione di esistenza: l’esistere di quel corpo individuale, appartenente a quella data persona, è un tutt’uno con la sua anima, ma è anche la condizione perché questa entità spirituale e personale che chiamiamo anima si esprima nel tempo, rivelando il rapporto originale tra Creatore e creatura.

Ma qui ho già oltrepassato il limite di ciò che appartiene alla mia professione di psichiatra. Nella mia vita io mi sono occupato della psiche, ma – ed è questo il motivo di questo lungo excursus – non mi sono mai sentito disturbato dall’idea che esista qualcosa nell’uomo che serve a spiegare la sua identità più spirituale e il suo destino eterno. E da qui viene il criterio che mi ispira nell’utilizzo distinto di termini come psiche e anima, che io non vorrei mai confusi.

E che forse anche in campo cattolico occorrerebbe non confondere mai. Se ne avvantaggerebbe il dialogo tra credenti e non credenti, ma anche il crescere della conoscenza secondo le regole epistemologiche che sono proprie di ogni disciplina. L’uomo è ad un tempo un libro aperto e un abisso misterioso: nella misura in cui rispettiamo questa sua irriducibile complessità, sapremo anche accostarci a lui in nome e in ragione delle diverse competenze con l’atteggiamento più giusto che è quello del rispetto profondo, anzi della venerazione.

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