E l’anno è transitato con mutevoli e controverse sensazioni, lo smarrimento per le incertezze del futuro, il vuoto che è lo spazio del cambiamento e la ripetizione quasi ossessiva del rituale più evocato che desiderato. A tre giorni dal rito di passaggio sembra già un infinito percorso quello compiuto e quasi senza progettualità il nuovo anno, i soliti fuochi, il bacio finto e collettivo, le luci e una sorta di fulgore che sa tanto di viale del tramonto. Uno stupro all’innocenza in una festa di massa, un proiettile vagante che uccide come fossimo a Beirut in una Napoli che non vuole crescere, ripiegata in se stessa, adulti che insegnano ai bambini come sparare, come negare, come trasgredire. Un inizio d’anno sempre uguale a se stesso pur nella stanchezza psicologica di molti a recitare una parte festosa, solidale e corale. Ci sono riti che hanno un senso, che appartengono alle tradizioni, che rimangono intatti dallo scempio di una modernità più ottusa che reale, ci sono poi i riti indotti, trasformati, stravolti, quelli dell’accaparramento emotivo di un attimo di libertà, quel bisogno di buttare, rovinare, fare rumore, rompere i timpani come rompere gli ormeggi dall’ansia di regole che vengono poco metabolizzate quindi al minimo accenno di distrazione vengono rifiutate. Se è il vecchio che deve essere abbandonato, se è necessario che il nuovo avanzi, i riti dovrebbero servire per rivisitare, ripercorrere, ripensare ad una nuova progettualità. La violenza, quello stordimento ancestrale di occupare, rivendicare, alimentare la nevrosi dell’insicurezza sociale, questa è la violenza da Hamas alle strade apparentemente sicure delle nostre città. Violenze diverse, ma il contenuto, l’atteggiamento culturale di tipo predatorio è lo stesso. Oggi la festa è finita, consumata, già dimenticata, si fanno i resoconti e alla fine anche quest’anno è stato uno stridore bulimico sull’anoressia dell’anima, ossia pochi contenuti per il futuro che verrà, poco spazio agli insegnamenti, alla comprensione del significato di questi giorni dove la nascita e la morte simbolica si sono incrociati, natività da un lato e conclusione di un anno dall’altro. E adesso ci sono i giorni, quelli pieni, quelli senza gli sconti, non quelli dei negozi, ma della vita, pochi insegnamenti per i bambini e le nuove generazioni sepolte nel loro isolamento con un unico solitario messaggio augurale, quello del Papa e del presidente Napolitano, poco anche se tanto per i contenuti e l’impegno, ma poco per le famiglie che consumano, ma non progettano, per le istituzioni assenti nel ruolo, nel significato, nelle parole, quelle del coraggio di mostrarsi membri di qualcosa, educatori dei loro cittadini. L’anno nuovo è già qui e mostra segni già quasi vecchi perché ripetuti all’infinito. È l’individuo, la soggettività a dover trovare la strada, quella smarrita delle idee, delle emozioni pur nella precarietà oggi del loro significato.
Vera Slepoj
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domenica 4 gennaio 2009
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