“Chissà se le ho detto abbastanza quanto le volevo bene …”. Il rimpianto, quando perdiamo una persona cara, perché ci si lascia dopo una storia d’amore, o d’amicizia, perché si cambia vita, o perché l’altro muore, può essere rapidamente zittito, come una scomoda inquietudine, o diventare un tarlo incistato e doloroso. Sul nucleo duro della mancanza di tempo e di attenzione per dirsi l’affetto, la tenerezza, l’amore, si radica un pensiero ancora più disturbante: perché non sono riuscito a dire “grazie” davvero?
Perché questo rimpianto affiora, quando affiora, troppo tardi? Perché, uomini e donne, facciamo così fatica ad esprimere i sentimenti positivi, mentre quelli negativi ci escono letteralmente esplosivi, pieni di aggressività e distruttività?
Le ragioni della sostanziale difficoltà ad esprimere la gratitudine e l’affetto sono molteplici.
Innanzitutto, la capacità di dire grazie dipende dall’educazione. Non tanto, e non solo, nel senso formale di riti e modi– anche se la forma è espressione di contenuti e sentimenti– ma nel senso di capacità di esprimere il meglio di sé sintonizzandosi davvero con le emozioni degli altri.
Un’educazione che comincia da piccolissimi: non solo nell’incoraggiare il bambino a dire grazie, quando riceve qualche cosa ma, più in generale, nel fargli respirare e vedere la capacità di esprimere sentimenti positivi nella coppia, in famiglia, in asilo, a scuola. I bambini imparano (soprattutto) con gli occhi, grazie ai loro neuroni specchio. Ecco che allora l’antico detto latino: “Verba volant, exempla trahunt”, le parole volano, gli esempi trascinano, assume nuova pregnanza grazie alle rivoluzionarie scoperte su quanto l’apprendimento, nel bene e nel male, sia figlio, innanzitutto, dell’abilità visiva e motoria. I bambini ci filmano in ogni istante con i loro occhi attenti e il loro cervello; e, filmandoci, imparano. Insegniamo a ringraziare, dunque, ma soprattutto mettiamolo in pratica quotidianamente, affinché diventi uno stile, una capacità profonda di esprimere sentimenti positivi, facendo sentire l’altro importante e prezioso ai nostri occhi e per il nostro cuore. Gratitudine come segno di amore? Certamente, e nel senso più ampio.
La capacità di esprimere la gratitudine, così rara oggi, dipende infatti dall’empatia. Più si è capaci di sintonizzarsi sui sentimenti degli altri, di sentire le loro emozioni e i loro desideri, più si riesce a capire quanto sia importante per ciascuno di noi sentirci “riconosciuti”, mentre esprimiamo al meglio un talento o un’attenzione, mentre svolgiamo un lavoro con diligenza. Oppure mentre proviamo un sentimento di qualità.
E’ segno di educazione ringraziare sempre, almeno con una telefonata o un biglietto affettuoso, quando si riceve un regalo, evitando la gelida freddezza degli sms o, peggio, un ingeneroso silenzio.
E’ segno di autostima e sicurezza interiore ringraziare, quando un altro, amico, familiare o innamorato che sia, ci fa una cortesia. Paradossalmente, più è forte il legame d’affetto o d’amore, più sembra sia difficile ringraziare di cuore. Invece, è proprio segno di capacità di amare prendersi il tempo per soffermarsi ad apprezzare, e ringraziare, proprio le persone che ci stanno più vicine, familiari in testa. Sono loro le persone per le quali, se abbiamo un cuore, nasce più forte il rimpianto quando ci rendiamo conto che, improvvisamente, è diventato troppo tardi per esprimere la nostra gratitudine.
Spiacevole dirlo, ma, oltre la maleducazione, uno dei fattori che blocca di più la capacità di dire grazie è l’invidia, conscia o inconscia che sia. Invidia per quello che l’altro è o fa, con declinazioni diverse a seconda dell’età.
L’invidia tra giovani, o verso i giovani, nasce dalle possibilità (in più) che ci sembra l’altro/a abbia grazie alla giovinezza, alla bellezza, al fascino, all’entusiasmo, alla voglia di vivere che per ragioni oscure a noi sembrano preclusi. Potremmo definirla un’invidia “prospettiva”. L’invidia della maturità si scatena, invece, contro quello che l’altro o altra hanno realizzato negli affetti, nella professione, nella vita, con le proprie forze, la propria fatica, i propri talenti. Un’invidia “retrospettiva”, che ha connotazioni più amare, più biliose, più insidiose, più distruttive. In entrambi i casi, invece di fare una sana autocritica, l’invidioso/a vive l’espressione della gratitudine come una “diminutio”, come una perdita di valore personale, quasi un’umiliazione. Al punto che il ricevere un gesto gentile, un regalo, una cortesia, un favore, può indurre addirittura una risposta aggressiva, che nasce dalla rabbia interiore che ogni invidioso prova in dosi perniciose.
E allora? Perché non considerare che gentilezza e gratitudine, nel tono, nei modi di fare, e nelle parole scelte per dire grazie, sono un formidabile antistress? Lo sono per chi la esprime, perché per farlo di cuore ci dobbiamo sintonizzare sui nostri sentimenti positivi: così facendo, siamo i primi a beneficiare del sorriso che regaliamo, dell’abbraccio che riscalda il cuore, del dono che ci illumina scegliere, della lettera che ci dà gioia scrivere. E lo sono, certamente, per chi la riceve: tutti, ad ogni livello, abbiamo bisogno di sentirci apprezzati, di esistere nello sguardo, nell’attenzione, nella valutazione positiva degli altri. Sono queste onde positive che ci fanno sentire di esistere nel lavoro, in famiglia, in coppia, di meritare di essere amati, che vincono ogni solitudine. Che ci fanno raddoppiare l’energia e l’entusiasmo, la voglia di fare, di impegnarci, che raddoppiano l’amore e la tenerezza, che accrescono tutti i nostri neurotrasmettitori, come l’ossitocina, che aumenta la profondità e l’intensità dei nostri legami d’amore. E’ (anche) così che l’amore non si usura ma anzi cresce nel tempo, perché è nutrito a livello sostanziale, perfino biologico, come oggi sappiamo, dalla nostra capacità di stare insieme, gratificando l’altro con la nostra capacità di non dare per scontato, o, peggio, dovuto, tutto quello che fa per noi. Educhiamo e (ri)educhiamoci a dire grazie, a illuminare la nostra (e altrui) vita con questa stupenda capacità di far sentire gli altri preziosi per noi. Oggi ancora più di ieri, perché è nei giorni difficili che apprezziamo quanto l’essenziale sia invisibile agli occhi, ma visibilissimo per il cuore.
Alessandra Graziottin
fONTE
lunedì 19 gennaio 2009
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