domenica 31 maggio 2009
Per i pedoni arriva il semaforo con il conto alla rovescia
Arrivano anche da noi i semafori con il count-down, ma solo per i pedoni. Vuol dire che chi è in attesa di attraversare la strada, avrà di fronte non solo il solito semaforo, ma anche un display che gli farà il conteggio alla rovescia di quanto manca per avere il verde. Dunque, chi aspetta, avrà sotto controllo lo scorrere dei secondi e non si innervosirà al pensiero che sta aspettando "ore" quando al massimo si tratta di un minuto e mezzo per i semafori che hanno la tempistica più lunga. Il motivo per cui il Comune inizierà da giugno ad installare questi semafori con il count down è presto spiegato: «Capita sempre più spesso che i pedoni, infastiditi dalla durata del rosso, azzardino l’attraversamento della strada - spiega l’assessore alla Mobilità, Enrico Mingardi - Il display che mostra quanti secondi mancano al verde, dovrebbe tranquillizzare il pedone. Il meccanismo è stato sperimentato con grande successo in tutta Europa ed ora lo installeremo anche a Mestre, un paio di semafori per ogni Municipalità, in via sperimentale. Vediamo come funzionano e poi decideremo il da farsi. Perchè non li installiamo anche per le auto? Temiamo che gli automobilisti utilizzerebbero il conto alla rovescia per partire a razzo appena scatta il verde - spiega Mingardi - In ogni caso la sperimentazione andava fatta prima con i pedoni perchè il rischio di incidente nel loro caso è molto più elevato».
(Gazzettino)
lunedì 25 maggio 2009
Come si può scoprire la vera vocazione dei ragazzi
Esiste una vocazione? E se esiste è qualcosa che ci indica una professione specifica o è piuttosto una propensione, un interesse, una attrazione verso un campo di attività? E come facciamo a riconoscerla, a trovarla ? Alcuni hanno una vocazione specifica. Di solito quando c’è una tradizione familiare musicale o artistica o in una impresa che esiste da diverse generazioni. Ma il più delle volte la vocazione si presenta come interesse verso un certo campo di attività.
A quindici anni io volevo «studiare l’animo umano». Ma era una aspirazione vaga che poi ho realizzato cambiando più volte strada e attraverso diverse professioni: lo psicologo, il sociologo, il professore universitario, lo scrittore. Sempre in base alle mie esperienze posso inoltre dire che quando uno ha una forte motivazione finisce sempre per trovare la sua strada. Perché impara, diventa bravo e sono gli altri che gli fanno proposte, gli chiedono di svolgere una attività utile. Ma non tutti hanno una vocazione precoce.
Molti ragazzi sono incerti, non si sentono attratti da nulla in particolare, si disperdono in cento attività superficiali, si fanno trascinare qua e là dagli amici. Per aiutarli bisogna inserirli in strutture definite, con attività regolari. Io lo vedo al «Centro Sperimentale di Cinematografia», dove gli allievi lavorano insieme e ciascuno scopre di avere un particolare talento, di riuscire bene in quel campo, per cui si appassiona, si specializza, e gli altri riconoscono la sua bravura. Non facciamo però l’errore di confondere la capacità con la vocazione. Alcune persone possono essere molto brave in un campo come la matematica, il disegno, la letteratura o la musica, ma senza avere la carica di entusiasmo che fa una vera vocazione.
Per scoprire la vocazione di un ragazzo servono i test attitudinali, ma occorre anche una persona saggia, che stia con lui, che gli parli e scopra quali sono i suoi desideri, le sue aspirazioni più forti. Infine sono decisivi gli incontri umani, le esperienze concrete in cui ci rendiamo conto se quella è veramente la nostra strada. Pensiamo a Michelangelo quando ha potuto frequentare Lorenzo il Magnifico, a Leonardo quando ha messo piede nella bottega del Verrocchio, a Freud quando ha incontrato lo psichiatra Charcot. Questi sono esempi famosi, ma, in realtà, ciascuno di noi può incontrare il suo Verrocchio o il suo Charcot
Alberoni ( Il corriere della sera)
domenica 24 maggio 2009
festa della "Sensa"
Tra leggenda, mito e storia
Nei secoli scorsi la festa della Sensa ha giocato un ruolo importantissimo nella vita sociale e politica di Venezia, risultando una delle celebrazioni più importanti e sfarzose, in cui si intrecciano leggenda, mito e storia della città.
Se storicamente la Sensa è il frutto di una sovrapposizione nel tempo di riti e manifestazioni civili e religiose, oggi le si preferisce attribuire il significato di festa del Mare e quindi di festa della città che trae dal suo rapporto col mare, ragione di vita.
Le origini
La Festa della Sensa affonda le radici nella storia di Venezia, e più precisamente nell'episodio che vede il doge Ziani fungere da mediatore tra il Papa Alessandro III e l'imperatore Federico Barbarossa.
Lo sposalizio del mare
Questa cerimonia celebrava il dominio della Serenissima sul mare. Il doge, con il seguito, si imbarcava sul Bucintoro, l'imbarcazione di rappresentanza, e, raggiunta la bocca di porto di San Nicolò, gettava in mare un anello d'oro.
La fiera
La famosa Fiera della Sensa attirava visitatori da tutta Europa. Si svolgeva in Piazza San Marco, durava 15 giorni ed era l'occasione per esporre merci rare, le ultime novità della moda, esibire opere di artisti e curiosità di tutto il mondo.
La Sensa oggi
Oggi lo sfarzo è inferiore al passato, è stata introdotta la componente di rievocazione storica, ma la simbologia del matrimonio mistico con il mare resta pregnante tuttora. Il sindaco, con le autorità civili e religiose, va in barca fino alla bocca di porto di S. Nicolò, dove effettua il rituale lancio dell'anello.
A seguire la regata della Sensa su gondole a quattro remi
Per ulterioiri informazioni
In primavera, stagione in cui si festeggia la Sensa, gli ortaggi vivono il momento di massimo splendore, specie quelli prodotti dai magnifici orti delle isole. Fra le ricette più tipiche, risi e bisi e le castraure (carciofi novelli)
domenica 17 maggio 2009
C'è una dieta magica per l'estate?
Fonte :Prof. Pierluigi Rossi Specialista in Scienza della Alimentazione
venerdì 15 maggio 2009
martedì 12 maggio 2009
Ciambellone bicolore
INGREDIENTI
farina g 300 - zucchero g 300 - burro g 300 - uova g 300 - nocciole g 150 - cioccolato gianduia g 150 - una bustina di lievito in polvere - burro e farina per lo stampo - sale
Preparazione
Montate a spuma il burro con lo zucchero e un pizzico di sale, unite le uova, uno alla volta, continuando a lavorare con la frusta elettrica, quindi dividete l'impasto in due parti uguali e incorporate, a una, il cioccolato gianduia fuso, freddo, e metà della farina setacciata con mezza bustina di lievito; all'altra parte dell'impasto, invece, amalgamate le nocciole sminuzzate grossolanamente, leggermente inumidite e mescolate con la farina rimasta. Imburrate e infarinate bene uno stampo a ciambella con bordi alti (diametro cm 22), riempitelo con i due impasti a colori alternati, poi infornatelo a 170° per circa un'ora: se durante la cottura il dolce dovesse scurirsi troppo, copritelo con carta da forno e, prima di sfornarlo, infilatevi uno stecchino che dovrà uscire asciutto. Sfornate il ciambellone e, subito, sformatelo su una gratella lasciandolo raffreddare capovolto, quindi servitelo.
Fonte: la cucina italiana
È l’amore, non il sesso a farci impazzire di gelosia
La nostra epoca è disinibita ma l’animo non è cambiato
Si capisce perché, di fronte ad una frustrazione così forte, molti pensino al suicidio o all'omicidio. Cosa pericolosa soprattutto per le donne perché di solito sono loro che decidono se continuare o no la relazione di coppia ed i maschi spesso non accettano la rottura e reagiscono in modo violento.
E il sesso come c'entra? Nella gelosia il sesso diventa ciò che di esclusivo l'amante dà alla persona che ama. Il simbolo stesso della fedeltà e del tradimento. La nostra epoca è disinibita ma il nostro animo non è cambiato. Abbiamo solo separato sesso e amore. Il sesso da solo si presenta come gioco erotico libero, leggero e che svanisce con niente. Ma non appena si unisce all’amore diventa esclusivo esigente e intollerante. Ti afferra nella tua essenza di individuo, si radica nella tua mente, e se ti ha dato l'estasi, ora può lacerarti il cuore
lunedì 11 maggio 2009
Pianto, messaggio da non ignorare
"Lascialo piangere! Tra un po' smette!" "Se ha mangiato, è stato cambiato, è pulito, non c'è motivo che pianga… lascialo piangere altrimenti lo vizi…". Il pianto dunque come vezzo, o come vizietto, da correggere lasciandolo inascoltato. "Lasciatelo piangere. Arriverà il momento in cui il bambino non piangerà più, perché ha imparato l'autonomia", sostiene qualche esperto d'oltreoceano, autore di best-seller "educativi" che pacificano l'indifferenza dei genitori. Attenzione: il bambino che smette di piangere da solo nella sua cameretta perché nessuno risponde al suo pianto non è un bambino che ha imparato l'autonomia. È un bambino che sta imparando la disperazione: quella mancanza profonda di fiducia che ci sia qualcuno che ti ama, che ti conforta, che si prende cura di te.
Uno sconforto che pian piano diventa perdita di speranza nei confronti della vita. Tanto più se il pianto nasce da un dolore fisico, oltre che emotivo, che l'adulto non ha riconosciuto né compreso.
Perché piange, un bambino? Perché si sente solo e trascurato, perché ha bisogno di attenzione, perché vuole essere coccolato, perché ha bisogno di una carezza e di un abbraccio, perché resta affidato ad estranei per troppe ore al giorno e gli mancano l'odore della pelle della mamma, la sua voce, il suo calore. Piange perché soffre, perché sente dolore.
Soprattutto il bambino piccolo, che non comunica a parole, può affidare al pianto tutto il suo mondo emotivo per dare agli adulti che lo circondano dei segni di allarme e di attenzione. Negare il profondo significato comunicativo del pianto del bambino significa uccidere una parte fondante del suo mondo psichico (e fisico!) e della sua crescita affettiva. Il bambino non ascoltato nel suo pianto non ascolterà il pianto degli altri bambini, non sentirà le loro emozioni, non sarà educato all'empatia. Crescerà depresso, oppure aggressivo e bullo, o, in casi estremi, sadico. Ed avrà più probabilità di cercare in droghe e alcool quella riduzione di ansia e inquietudine che non sa più cercare né ricevere attraverso rapporti affettivi di qualità.
Mettiamoci nei suoi panni: quando parliamo, desideriamo che l'altro ci ascolti. Ci ferisce profondamente e ci fa tacere addolorati, o urlare ancor più, rancorosi o furiosi, la sensazione di "parlare al muro". Ecco: per il bambino piangere senza che nessuno risponda è come parlare al muro. Quando l'esperienza si ripete, il bambino impara la dura verità: nessuno ti risponderà. O, peggio, ti risponderà con urla, se non con percosse.
Viviamo in un mondo paradossale. Da un lato copriamo i bambini di regali inutili, di cose inessenziali, dall'altro diamo loro sempre meno l'unico nutrimento di cui un bambino ha davvero bisogno, oltre al cibo: un'attenzione tenera e affettuosa, un ascolto empatico che lo faccia sentire amato e non solo. Soprattutto, un ascolto che sia capace di capire e, se c'è un problema oltre al bisogno di coccole e conforto, anche di curare il suo dolore, emotivo o fisico che sia.
E qui c'è il dramma: nei confronti del dolore fisico del bambino esiste una sostanziale negligenza, non solo a casa, ma anche nei reparti pediatrici. E, con poche, lodevoli eccezioni, gli stessi pediatri non ricevono una formazione specifica, come sostiene con conoscenza di causa la professoressa Franca Benini, del Dipartimento di Pediatria dell'Università di Padova (un'isola felice, da questo punto di vista): da trent'anni si occupa del dolore nel bambino e si sta battendo perché nelle scuole di pediatria la gestione del dolore dei piccoli diventi materia di studio prioritaria.
Come si fa a capire quanto sta male un bambino, anche dal punto di vista fisico? Ora è possibile "quantizzare" il suo dolore con un "righello" con le faccine, da quella che piange a quella che ride, conosciuto come scala dell'intensità del dolore di Wong-Baker. Essa permette una valutazione dell'intensità del dolore da 1 a 10, a seconda della faccina indicata dal bambino. Una scala semplicissima il cui uso dovrebbe essere routinario da parte di ogni pediatra di famiglia e ospedaliero. E forse anche dei genitori.
Al di là e prima delle quantizzazioni, il messaggio cardinale è uno solo: ascoltiamo il pianto del bambino. Sintonizziamoci sul suo dolore. Confortiamolo. Se il dolore è fisico, curiamolo in modo adeguato, anche farmacologico, in ospedale e a casa, sempre su consiglio del medico.
Soprattutto, non dimentichiamo che il bambino, quando piange, ci sta parlando. Non ascoltarlo è crudeltà, che genera altro dolore, altra solitudine e infinita infelicità.
Alessandra Grazziottin ( Il gazzettino )
domenica 10 maggio 2009
sabato 9 maggio 2009
Decalogo per nonni di piccoli naviganti
1- Consentire al bambino di navigare in internet solo se c'è in casa una persona adulta.
2- Non collocare,possibilmente, il computer nella camera del bambino e comunque posizionare lo schermo in modo da renderlo visibile a chi entra o soggiorna nella stanza.
3- Impratichirsi nell'uso del computer quantomeno allo stesso livello del bambino in modo da non dargli la sensazione di poter operare indisturbato senza possibilità di controllo.
4- Utilizzare tutti i sistemi di protezione attualmente disponibili per inibire l'accesso ai siti non adatti ai bambini.
5- Parlare abitualmente con il bambino circa la sua "navigazione" in internet, stimolandolo con domande su quanto vede e cercando di rilevare eventuali reticenze.
6- Insegnare al bambino che quando si collega nelle chatline non deve mai dare(né chiedere) indirizzo,numero di telefono, o qualunque informazione che possa identificarlo. Essere chiari (anche se non allarmistici) sui rischi che possono derivare dal contatto in chat con sconosciuti.
7- Evitare che il bambino sia in internet(e particolarmente in chat) nelle ore serali. Abituarlo ad avvisare sempre i genitori se qualche "amico di chat" si fa insistente con lui e/o gli chiede informazioni personali,
8- Navigare e chattare qualche volta insieme a lui,per indurlo a una confidenza maggiore con i genitori nel riferire i contenuti delle sue conversazioni in rete.
9- Cercare (per quanto possibile ) di evitare che il bambino abbia una sua casella di mail di cui sia il solo a conoscere la password di accesso.
10- Costruire insieme al bambino "regole condivise" per navigare in internet,evitando di imporle voi.
- Fonte: Silvia Vegetti Finzi -Nuovi nonni per nuovi nipoti
Esami di maturità ?
DA NON PERDERE: gli ottimi spunti per una tesina da portare all'esame di maturità. ;-)
Visita il sito http://www.italica.rai.it/venerdì 8 maggio 2009
giovedì 7 maggio 2009
lunedì 4 maggio 2009
I piccoli animali come terapia
Quanto impatto può avere un animale sulla nostra vita? Quante vite può toccare un singolo gatto? Come è possibile che un gattino abbandonato trasformi una piccola biblioteca della profonda provincia americana in un luogo d’incontro e di conforto? E possa diventare il cuore di una cittadina, attrarre l’attenzione di un’intera regione e diventare alla fine famoso nel mondo, una vera star su giornali, radio e televisioni, dagli USA alla Gran Bretagna fino al Giappone (meno che in Italia, dove la sua fama sta arrivando solo ora)? Per rispondere a queste domande bisogna conoscere la storia di Dewey (pronuncia Duwi) Readmore Books, tenerissimo gattino tutto biondo. |
Comincia più o meno così “Io e Dewey” di Vicki Myron (Sperling e Kupfer, 2009), la storia straordinaria di questo gattino e dei suoi 19 anni di vita come gatto di biblioteca insieme a Vicki Myron, la bibliotecaria che lo ha salvato e adottato. Uno storia poetica e commovente, che è molto di più della storia di un gattino, ancorché dotato di straordinaria empatia. E’ la storia di come l’evento più tragico – l’abbandono nel mattino più gelido, in cui è massima la probabilità di morire assiderato – possa trasformarsi in una storia d’amore, di salvezza, di generosità, di attenzione, di bellezza e profondità di sentimenti. Ognuno può ritrovarsi e identificarsi nel destino singolare di Dewey, che dal momento in cui viene salvato, distribuisce affetto e attenzione a tutti i frequentatori della biblioteca. La sua storia si intreccia con quella difficile e sofferta di Vicki, e di Spencer, cittadina quasi travolta durante la grande crisi agricola americana degli anni Ottanta. E ci mostra il meglio della profonda provincia americana, la capacità di solidarietà, di coesione, la forza dei legami familiari, il radicamento nella terra e in poche e solide convinzioni, la fiducia nell’aiuto reciproco, nonostante molte prove del destino.
Ho anch’io un gattino – Tiptap, detto Tippi, detto “Amore grandissimo” - trovato mezzo morto, di poche settimane, solo pelle e urli, in una notte senza luna, abbandonato tra i cespugli lungo una strada all’Elba. So che cosa si prova a salvare un esserino così disperato, e quanto l’amore possa trasformare il destino di un reietto in quello di un principino adorato. Ma ho imparato quanto le ferite dell’abbandono segnino comunque il carattere, anche di un gattino, per sempre. E quanto la dedizione, le cure, le coccole, consentano ad un piccolo animale interazioni emotive con gli umani estremamente complesse, profondamente gratificanti e confortanti. Al punto di pensare: gli manca solo la parola. Chi di noi ha un rapporto privilegiato con un gatto, un cane, o un cavallo, si rende conto della straordinaria complessità di sentimenti e di emozioni che anche l’animale ha. Intuisce e sente che anche gli animali soffrono fino ad avere depressioni gravi, fino a morire di solitudine e di abbandono. Che patiscono i maltrattamenti e l’isolamento quanto gli umani. Che sanno amare come pochi di noi sanno fare, e senza ambivalenze. Che anche i gatti, a torto definiti egoisti, sono capaci di affezione e di dolcezze inattese e commoventi, come Dewey; che possono catalizzare l’amore degli altri, ed essere un balsamo per le loro ferite e le loro solitudini. Che sentono il nostro dolore, la nostra sofferenza, i nostri limiti, e possono essere la migliore terapia non solo per l’anima ma anche per il corpo: non a caso di parla di “pet therapy”, di terapia con piccoli animali. La loro presenza sta diventando importante, per esempio, nei reparti di pediatria e geriatria. Ma anche, e questo mi addolora più di tutto, che possono soffrire spaventosamente per le nostre crudeltà, il nostro egoismo, la nostra spietata indifferenza, la nostra arroganza, il nostro sadismo, il nostro abbandono. “Tanto è un animale” si dice, azzerando, con i nostri sensi ottusi e la nostra presunzione, la verità e lo spessore di sentimenti che gli animali hanno e ci donano, e che spesso non meritiamo.
L’augurio è che racconti di vita come questo, su Dewey e Vicki, ci stimolino a guardare i nostri amici animali con un altro sguardo, un altro rispetto e un’altra comprensione. Ci diano più sensibilità e capacità di immedesimazione. Ci incoraggino a vivere la pienezza di emozioni e sentimenti che un animale ci può dare, con gioia, attenzione e tenerezza. Sono davvero i nostri migliori amici. Possono darci un amore senza ombre, ad ogni età, tanto più gratificante quanto più noi sappiamo ascoltarli con le antenne dell’anima, e ricambiarli con pari empatia e sensibilità.
Alessandra Graziottin ( Il Gazzettino )
domenica 3 maggio 2009
Pensieri del